Luce dalla soffitta

“La musica! Una magia che supera tutte quelle che facciamo qui!”.

Su quella frase, spazientito, Andrea chiuse il libro e lo buttò malamente sul comodino di fianco al letto.
Di Harry Potter e i suoi incantesimi ne aveva abbastanza. Giganti che sfondano porte e ragazzini con la coda di maiale, serpenti parlanti e maghi assassini, venditori di calderoni e un sacco di persone dai capelli rossi!
Che assurdità! Non gli sarebbe mai venuto in mente di iniziare quel libro se… Andrea scacciò quel pensiero dalla testa.
Si avviò in sala e accese la playstation. Forse solo quello lo avrebbe calmato.
Andrea, undici anni, era un tipo sedentario. Non aveva amici, gli piacevano i videogiochi e i lecca-lecca alla fragola ma soprattutto, odiava i libri.
Cosa c’era di interessante in un mucchio di parole complicate scritte su pagine e pagine, quando c’era una playstation nuova proprio in sala?
E soprattutto, cosa c’era di tanto entusiasmante in un libro che parlava di maghi, streghe e altre baggianate?
Perché quell’ “Harry Potter”, un libro, era così famoso?
Questo, Andrea proprio non se lo spiegava.
“Quando inizi a leggerlo, non ti fermi più. Non conosco nessuno che abbia iniziato a leggere “Harry Potter” e non l’abbia finito” gli aveva detto la madre qualche mese prima, sperando di convincerlo ad immergersi nel mondo della lettura.
Ma Andrea faceva eccezione.
Appena aveva iniziato a leggere le prime parole del libro, si era stufato.
“Il signore e la signora Dur… Dur… Dursley? Ma che nome è? Boh. … di Privet Drive numero 4, erano orgogliosi di… affermare? Cosa significa? Bah, ci rinuncio”. Questa era stata la prima volta in cui Andrea aveva letto una frase di un libro. Un inizio.
Poi la madre lo aveva convinto a continuare. “Un libro può essere spunto di immaginazione e un modo per passare il tempo libero”. Andrea aveva letto ancora qualche capitolo per far contenta la madre, ma su quella frase del professor Silente, si era arreso.
Anche la musica non lo entusiasmava particolarmente. E gli risvegliava brutti ricordi.
“Andreaaa! Vieni, è ora di cena!”
“Aspetta un attimo mamma! Devo superare questo fungo-mostro che mi vuole mangiare, poi arrivo!”
“No Andrea, vieni subito e muoviti!”
“Uffa, mamma! Mi hai distratto e ora il fungo-mostro mi ha mangiato! Ora c’è un teschio e c’è scritto “GAME OVER!”. Non so cosa significhi, però penso voglia dire: “IL FUNGO-MOSTRO TI HA STACCATO LA TESTA E ORA SEI MORTO!”. È una mia interpretazione”
“Andrea, non ho capito niente! Se fosse stato qualcosa di importante saresti venuto qui in cucina a dirmelo, quindi muoviti e vieni a mangiare!”
Andrea buttò per terra il joystick sbuffando e andò in cucina.
“Che si mangia oggi?” chiese Andrea con voce strascicata.
“Zuppa di cavolo essiccato e spinaci. Niente commenti” la voce della madre giunse dalla cucina, poco udibile per via del rumore delle pentole e dell’alberello di plastica appoggiato su una mensola della cucina che ripeteva incessantemente con voce meccanica: “Buon Natale e Buone Feste da tutti noi!”
“Uffa, mamma. Ma non puoi comprare la pizza per una volta?” si lamentò la sorella maggiore di Andrea, anche lei seduta al tavolo della cucina “Al posto di spadellare ogni volta per farci assaggiare le tue buonissime zuppe di cavolo” si affrettò ad aggiungere, notando l’espressione stizzita della madre.
L’albero di Natale posto accanto al tavolo sfavillava di luci colorate e nastri argentati e il presepe era stato allestito sul mobile bianco della cucina. Di certo i preparativi non mancavano.
Ma Andrea, anche se non l’avrebbe mai ammesso, si sentiva estremamente solo. A scuola tutti lo ignoravano per il suo carattere burbero e per la sua prepotenza.
Attorno ad Andrea si era formato uno strano vuoto, perché gli amici tendevano ad isolarlo.
“Ed ecco la zuppa di cavolo e spinaci!” esclamò la madre.
Andrea osservò con diffidenza il liquido denso e scuro che gli ribolliva nel piatto.
“Ma… si deve proprio mangiare questa roba?” chiese, sospettoso nei confronti della minestra.
“Sì. Non per vantarmi, ma è molto buona!” esclamò la madre.
“Ehm… ok, la provo” disse Andrea, prendendone una cucchiaiata.
Quella notte Andrea non chiuse occhio.
Si rigirò nel letto e nelle coperte, ma non riusciva a prendere sonno. Si sentiva stranamente sveglio.
Dopo un’ora circa di insonnia Andrea decise di alzarsi dal letto: non sarebbe servito a niente stare sotto le coperte a girarsi i pollici.
Uscì dalla porta della camera, percorse il corridoio, arrivò in cucina e si sedette al tavolo. Vedeva a malapena a un palmo dal naso grazie alla luce della luna. Il buio che lo avvolgeva conferiva alla cucina, di giorno così vivace e illuminata, un aspetto cupo e spettrale. Il silenzio gli penetrava nelle ossa. Lo scricchiolio del pavimento fece rabbrividire Andrea. Udì l’ululato di un cane e lo stormire del vento che agitava le fronde dei cipressi visibili dalla finestra. Andrea iniziava a tremare.
Doveva ritornare nel letto, ma non voleva ripercorrere il corridoio buio pieno di soprammobili con il rischio di farne cadere uno. Quindi decise di salire le scale per andare in soffitta che, per le poche volte in cui c’era stato, pareva ad Andrea un posto più riparato della cucina. Forse lì sarebbe stato anche meno freddo. E poi, finché la notte durava, voleva esplorare la casa, dato che non aveva niente di meglio da fare.
Salì i gradini pericolanti che conducevano alla soffitta posti in un angolo nascosto della stanza. Appena mise piede sul terzo gradino, cadde a terra con uno schianto e ruzzolò per il pavimento.
Sentì Catullo, il suo cane, che grugniva nel sonno. Per fortuna il rumore non aveva svegliato nessuno. Si rialzò silenziosamente in piedi, evitando di produrre il minimo rumore. Si arrampicò sui gradini e si infilò in una stretta apertura che permetteva l’ingresso alla soffitta.
Andrea si tirò in piedi, con le ginocchia ancora doloranti per via della caduta. La soffitta era un posto squallido e angusto, con ragnatele giallastre ovunque. Un sottile strato di polvere ricopriva ogni cosa presente nella stanza e, ad ogni passo, Andrea lasciava una piccola impronta sul pavimento.
La pallida luce della luna filtrava attraverso un piccolo oblò posto nella parte superiore della parete sinistra, illuminando ogni piccolo particolare. Andrea dovette scostare i ragni mummificati che pendevano dal soffitto per proseguire. Si mise a rovistare tra gli scatoloni; in uno trovò delle vecchie bambole di pezza consumate, in un altro degli ombrelli rosi dai tarli, un salvagente in un altro ancora.
Quando si avviò verso un’altra pila di scatoloni, un qualcosa gli piombò sopra la spalla e lo fece cadere a terra.
“Aaaaah!” urlò Andrea in preda al panico, ma quando osò alzare lo sguardo, scoprì che ad attaccarlo era stato solamente un manichino con indosso un cappotto e dei jeans che odoravano di naftalina.
Con i denti che ancora battevano per lo spavento, Andrea si tirò in piedi barcollando, lasciando il povero manichino a faccia in giù sul pavimento. Sperava di non aver svegliato nessuno al piano di sotto.
Andrea girò attorno al manichino, attratto da una fievole luce in fondo alla stanza. Intorno alla luce erano disposti degli scatoloni, che rendevano impossibile vedere da dove essa provenisse.
Qualsiasi cosa emanasse quel bagliore, doveva essere stata utilizzata abbastanza recentemente, perché gli scatoloni non erano ricoperti dalla polvere. Andrea si avvicinò, passo dopo passo, respiro dopo respiro. Cosa poteva esserci dietro a quegli scatoloni? Forse era solo una pila.
Ma qualcosa in Andrea, gli diceva che non era così. Esitò un momento. E se non avesse dovuto ficcare il naso lì dietro? E se non avesse dovuto nemmeno andare a rovistare in soffitta?
Per un attimo Andrea pensò di tornare al calduccio nel suo letto, ma cambiò subito idea. Se non avesse visto da dove proveniva la luce, le domande lo avrebbero perseguitato a vita.
Poco più di un metro lo separava dalla luce.
Un passo. Un altro passo. Un altro ancora.
La paura in Andrea cresceva. Una strana paura, che non aveva mai provato.
Con un ultimo sospiro, Andrea chiuse gli occhi e fece un ultimo passo. “Ecco,” pensò, con gli occhi ancora chiusi “ora sono davanti alla luce”. Non fece a tempo ad aprire gli occhi, che un urlo fortissimo lo scaraventò a terra.
Andrea scappò a gambe levate dalla cosa che aveva urlato e si buttò giù dalla scaletta. L’urlo aveva svegliato la madre, che ora era in sala, preoccupata. “Cos’è successo Andrea?! Ti ho sentito urlare” disse.
“Perdonami mamma, è che non riuscivo a dormire e mi sono alzato, però poi sono inciampato in un sasso e sono caduto” si scusò Andrea.
La madre inarcò un sopracciglio. “In un sasso? Qui non ci sono sassi, Andrea. Sarai inciampato nel tuo joystick” “Ah, è vero, sarò inciampato nel joystick, l’avevo lasciato a terra. Scusa se ti ho svegliata” replicò Andrea.
La madre corrugò la fronte, poi accompagnò Andrea a letto.
Quella notte Andrea sognò un manichino senza testa che urlava, gettando scatoloni di qua e di là. Si svegliò all’alba tutto sudato e scosso dai brividi. Decise che non poteva continuare così. Doveva ritornare in soffitta.
La notte seguente, Andrea aspettò che tutti si fossero addormentati per sgattaiolare fuori dal letto, armato di torcia e di una pentola. L’avrebbe usata per difendersi nel caso la creatura urlante l’avesse attaccato.
Salì la scaletta, stavolta prestando attenzione al gradino pericolante.
Si tirò in piedi. La soffitta era come l’aveva trovata la sera precedente, eccezion fatta per le orme che aveva lasciato camminando nella polvere.
Si diresse goffamente verso la luce, con la torcia spenta in mano.
“C-c-chiunque tu s-sia, s-s-sappi c-c-che non mi fai pa-pa-paura” farfugliò Andrea, alzando la pentola sul viso.
“Convincente” disse una voce gracchiante dal fondo della stanza.
Andrea aveva gli occhi fuori dalle orbite. Qualcuno gli aveva risposto! Non si era sognato tutto!
“Ehm, allora… mi fa avvicinare alla luce che viene da dietro gli scatoloni, signor Sconosciuto?”
“NO!” sibilò la voce.
“Shh! Sveglierai mia madre!” esclamò Andrea.
Dopo una lunga pausa, il ragazzo continuò: “Ti propongo un accordo. Io faccio qualche passo avanti, e vedo chi sei. Poi scappo via e non mi faccio più vedere”. Andrea voleva sembrare più sicuro di quello che in realtà non fosse. Dal fondo della soffitta giunsero alcuni borbottii.
“Allora?” dopo qualche minuto Andrea si era stufato.
“Va bene. Sempre che tu riesca a scappare” sogghignò la voce.
Andrea si avvicinò cautamente. Chissà cosa avrebbe trovato là dietro. Si preparò a qualunque cosa: un fantasma, un coniglio parlante, un cucciolo di drago, un cavaliere armato…
Quando scostò gli scatoloni, Andrea trovò qualcosa di veramente inaspettato.
“AAAAAAAAAAAAAAH!” Andrea si mise la pentola sulla faccia per soffocare l’urlo.
Due occhi neri come la pece lo stavano guardando torvi. Ma la cosa strana era che… c’erano solo quelli!
Due pupille iniettate di sangue erano sospese a mezz’aria. Nient’altro le sosteneva.
“Buonasera”, dissero con ostilità.
Andrea osò scostare la pentola dal viso quanto bastava per vedere cosa ci fosse davanti a lui. Un secondo urlo lo costrinse a ficcarsi la pentola di nuovo sulla faccia.
“Non parlo il gridese. Traduca in italiano, per favore” gli occhi sogghignarono.
Andrea fece un bel respiro e si costrinse a strapparsi la pentola dalla faccia.
“B-b-buon g-g-giorno, occhi-torvi-senza-proprietario” farfugliò Andrea.
“Buongiorno? Sono le undici passate, mio caro Andrea. E comunque, mi chiamo Drogo”.
Andrea sentiva che la testa gli sarebbe scoppiata da un momento all’altro. Quelle due pupille inquietanti avevano un nome? E come facevano a conoscere il suo?
All’improvviso, qualcosa si materializzò sul pavimento. Andrea non sapeva se sospirare di sollievo o se urlare un’altra volta. Gli occhi avevano un proprietario. Ma un proprietario orrendo.
Forse sarebbe stato meno orrendo se non avesse indossato quella specie di sacco di pelle con quattro buchi per le braccia e per le gambe. Due orecchie a punta e un naso aquilino lo facevano sembrare un elfo, ma il resto del corpo era rugoso, bitorzoluto e di un rosa pallido. Era magrissimo.
“Forse devo tornarmene a letto” biascicò Andrea.
“Forse cambierai idea quando vedrai cosa ho da mostrarti” cantilenò Drogo.
Andrea era ancora più confuso. Quella creatura aveva qualcosa da mostrargli? Ma il loro non era stato un incontro puramente casuale? Mille domande vorticavano nella testa di Andrea.
Non fece in tempo a dire qualcosa, che Drogo tirò fuori qualcosa da uno scatolone accanto a lui. Sembrava che esso contenesse una lampada: dal suo interno giungeva la flebile luce che aveva indotto Andrea ad avvicinarsi al fondo della cantina.
Nei dieci secondi che seguirono, Andrea provò un’infinità di emozioni diverse. Incredulità, paura, confusione, tristezza, ancora confusione, ancora incredulità, infine repulsione della realtà stessa.
“Quella cosa… non dovrebbe essere qui. È sparita. Non è più in casa nostra da anni” disse.
Ma non lo era.
Davanti ad Andrea, c’era la copia identica della chitarra di suo padre. Però luminosa.
“Non ha alcun senso” disse Andrea.
“No. Ha un senso. Vieni, siediti accanto a me.” Per la prima volta, nella voce di Drogo, c’era comprensione.
Non il solito sarcasmo. Con riluttanza, Andrea si sedette accanto alla creatura.
“Guarda la chitarra” disse Drogo.
Andrea obbedì e abbassò lo sguardo sullo strumento. La chitarra era molto più luminosa di quanto non sembrasse nello scatolone. Era quasi accecante.
“Andrea” disse Drogo “io ero amico di tuo padre”. Andrea lo fissò incredulo.
“In uno dei suoi viaggi in nave verso terre remote incontrò me, su un’isola. Ero un troll, un troll nano. L’ultimo della mia specie: ero rimasto da solo, dopo un’inondazione che travolse l’isola e tutta la mia famiglia.
Diventammo subito amici; lui mi raccontava dei suoi viaggi e io gli raccontavo dei troll. Poi lui sapeva suonare molto bene la chitarra e mi insegnò a suonarla. Certo, con le dita grosse che ho, non ero molto bravo.
Tuo padre mi diede anche una casa: quando tornavamo dai viaggi, io mi rifugiavo in soffitta (ovviamente non mi potevo far vedere) e lui stava al piano di sotto, con voi”
Andrea stava per piangere.
Negli ultimi anni aveva cercato di pensare il meno possibile a suo padre. Lo faceva soffrire pensare a lui.
“Un giorno, stava per partire per un viaggio molto pericoloso. Sapeva che probabilmente…”
“…non sarebbe tornato” Andrea completò la frase.
“Sì. Che non sarebbe tornato. Quindi mi lasciò qui, a casa, nonostante le mie numerose proteste. Mi affidò la sua chitarra e il compito di custodirla. Poi… non tornò più”
Drogo e Andrea erano scoppiati a piangere (silenziosamente, per non svegliare Catullo).
Erano tutti e due tristissimi e commossi.
Dopo qualche minuto, Andrea prese parola. “Ma come mai la chitarra emana questa luce?” chiese.
Drogo accennò un sorriso.
“Oh, gliel’ha donata una popolazione che abitava su un’isola del Pacifico. È fatta con il legno di una pianta particolare. Ha la particolarità di illuminarsi di notte. Prova a suonarla” lo incitò.
Andrea la prese con un certo timore e iniziò a pizzicare le corde. Producevano un suono cristallino e bellissimo.
“Oh, wow” disse, meravigliato.
“Bravo” disse Drogo “ora però, stai suonando a vuoto. Ti insegno qualche accordo. Vedi, il Mi minore si fa così, prova. No, sposta il medio un po’ più in qua… Ok, così va bene…”
Ogni notte, Andrea si recava nella soffitta per una nuova lezione di chitarra. Ormai lui e Drogo erano diventati amici.
Dopo circa tre settimane, Andrea riusciva a suonare alcuni semplici brani che, giorno dopo giorno, diventarono sempre più difficili.
Scoprì che la musica era un mondo nuovo e appassionante, magico e melodioso.
Si fece molti nuovi amici e la sua playstation rimase quasi inutilizzata. Lui diventò sempre più bravo e il suo talento crebbe rapidamente.
Grazie alla sua tenacia e al suo paziente maestro, Andrea da grande diventò un famoso chitarrista.
E naturalmente, lesse tutta la saga di Harry Potter in meno di un mese.

Martino Paglia